Il culto dei morti

Personalmente amo molto l’autunno. Il mio Abruzzo e in particolare la Valle Peligna, zona in cui sono nato e cresciuto, in questo periodo si tinge di colori meravigliosi e la terra si prepara a dormire, prima del rigido inverno. Nonostante i giorni siano sempre più brevi e i raggi solari sempre più deboli, molti cercano di sfruttare quegli attimi di luce quasi a catturare quel calore che a breve sarà sempre un lontano ricordo. Del resto, la ricerca ha ormai dimostrato ampiamente l’importanza della Vitamina D e degli effetti positivi della nostra stella più luminosa e calda, anche a livello psicologico.

E’ pur vero però che la tecnologia, il benessere e il progresso oggi garantiscono alle persone tutte le comodità in qualunque stagione dell’anno, sebbene questo significhi, contemporaneamente all’aumentare dei piaceri, una riduzione del benessere del pianeta.
In passato, anche solo pochi decenni fa, molte delle abitudini e delle opportunità oggi scontate ai più, non esistevano. Chi ha ancora la fortuna di avere i nonni a raccontare loro il Dopoguerra o il periodo della “fame”, saprà che era molto difficile trovare in casa televisione, frigorifero, congelatore, condizionatori e persino gli onnipresenti termosifoni. Oggetti quasi scontati nelle nostre case, insieme a strumentazioni sempre più tecnologiche, ma nel recente passato quasi inimmaginabili.

Forse anche per questo, la civiltà contadina, riunita intorno al focolare al calar della sera, senza corrente elettrica e con i lumi a disegnare sagome e ombre, era dedita a tramandare riti e leggende, alimentando falsi miti, credenze popolari e storie singolari arrivate fino ai nostri giorni.
E’ proprio in quel periodo che nascono numerose manifestazioni corali che solevano propiziare il ritorno della luce e scacciare la paura della morte, ancora oggi molto presente nonostante sia cambiato moltissimo.
Tra la fine di ottobre e gli inizi di Novembre nel mondo contadino cadeva il primo di numerosi capodanni che costellavano la stagione invernale fino all’avvento della primavera.

In questo periodo si è appena chiusa la vendemmia con la vinificazione e ci si preparava alla raccolta delle olive e a fare provviste di legna per il rigido inverno. Questo periodo dell’anno prendeva il nome di Capotempo (o Capetiempe in Abruzzese) e coincideva con la fine dell’annata agraria e la stipula di nuovi contratti agricoli, terminando nel giorno di San Martino, 11 novembre, dove “ogni mosto diventa vino”. Tutti i riti propiziatori di tale periodo erano sempre legati al culto dei morti, tale era forte il legame tra la vita terrena e l’aldilà. Per questo i rituali erano un misto di cristianesimo e paganesimo, vita e morte, tradizioni e innovazione, paura e felicità. Ma tali usanze non erano tipiche solo della civiltà contadina. Già il popolo romano, il primo Novembre era solito dare festeggiamenti in onore di Pomona, la dea della frutta (Ovidio, nelle Metamorfosi parla del mito di Pomona), che garantiva raccolti abbondanti e terra fertile (“Pomo” è il termine che si usa anche in italiano per indicare alcuni frutti, tra cui pomodoro e mela). In tutto il Mediterraneo la frutta è sempre stata una benedizione, crescendo ovunque e in abbondanza e quindi considerata degna di devozione.
Anche la Chiesa celebra il primo novembre la festa di Ognissanti e il giorno successivo quella della Commemorazione dei defunti. Agli uni e agli altri andava il ringraziamento per un buon raccolto.

I contadini sapevano bene che “la vita è una ruota”, come le stagioni. Temevano la morte ma allo stesso tempo la rispettavano, come la loro terra. Speravano ogni anno nei buoni frutti ma era consci che non dipendeva da loro, ma dalla volontà di un “essere superiore”. Per questo, avendo messo al sicuro tutte le provviste per il rigido inverno, in questo periodo si dedicavano di più a se stessi e ringraziavano i “santi” e Dio per il raccolto ottenuto, sperando che l’anno successivo sarebbe stato ancora più copioso.

Tra i numerosi racconti tramandati oralmente, quello che ricordo particolarmente in occasione della Commemorazione dei defunti, è la cosiddetta “messa dei morti”, che veniva celebrata, secondo la leggenda, da un sacerdote che volge le spalle all’altare. Ai bambini, me compreso, si diceva di non uscire di casa quella notte, poichè le anime dei defunti si sarebbero radunate in chiesa per sentire la loro messa.
Si raccontava infatti che se qualcuno fosse entrato in chiesa durante tale funzione, poteva correre il pericolo del contagio di morte. Come avvenne ad una sconosciuta signora di cui non seppi mai il nome, la quale, alzatasi di notte per andare ad aprire il suo forno (allora nei paesi c’erano i forni pubblici, dove poter cuocere il proprio pane), passò davanti la chiesa e vedendola illuminata e piena di gente, pensò che si stesse celebrando una messa e vi entrò. Mentre prese posto e si inginocchiò per pregare, le si avvicinò una sua parente, morta anni addietro, che la invitò ad andare via, dicendole che era l’unica viva in mezzo ai morti. E se non avesse fatto presto, appena consumata la fiamma delle candele, i morti tornavano morti e portavano via con loro anche i vivi. La donna allora si mise subito in testa lo scialle e senza guardare in faccia nessuno scappò subito via, ma fu talmente spaventata dall’episodio che divenne muta.
Una tradizione che invece nella mia famiglia, si rinnova ogni anno è la “cena delle anime” o “cena dei morti”, un’usanza utile a rinforzare il legame con i cari estinti e a sentirne la vicinanza.

La sera del 1° novembre, infatti, è abitudine apparecchiare la tavola e preparare da mangiare per i defunti, i quali, secondo il rito, ne beneficeranno durante la notte tornando sulla terra per visitare silenziosamente le loro case. Secondo la credenza popolare i defunti tornavano per dissetarsi e nutrirsi, per allontanare le malvagità. A volte addirittura tornavano semplicemente per giocare a carte come quando erano in vita, per una bevuta di vino e un tozzo di pane, ripopolando borghi e paesi e facendo visita ai vivi, offrendo loro protezione e facendo sentire la loro presenza, rinforzando il legame con i congiunti.
In molte famiglie, si lascia apparecchiata la tavola per garantire un pasto notturno ai propri familiari defunti, anche quelli mai conosciuti. Secondo tradizione si evita di mettere forchetta e cucchiaio sul tavolo, in quanto sconosciute al volgo in tempi passati. Non si mette neanche il coltello, potenziale pericolo per le anime, le quali, qualora fossero irritate per dei comportamenti sbagliati o arrabbiate per motivi propri, potrebbero farne cattivo uso.
La tavola presenta al centro un lume, che garantisce luce sufficiente ai commensali. Il pasto generalmente è rappresentato da maccheroni fatti a mano, col pollice, senza l’uso di strumenti di legno, rame o ferro. A questo si aggiungono pane e formaggio, accompagnati da un bicchiere colmo di vino rosso, magari con un fiasco quasi pieno al suo fianco. In alcune case, compaiono anche i fichi e frutta secca (se in vita c’erano), castagne, cachi, zucche, biscotti oppure qualche sott’olio. Non può mancare però una brocca d’acqua piena fino all’orlo: i morti tornano a casa con una grande sete. Secondo usanza, se il giorno seguente la tavola apparecchiata viene trovata intatta, le anime si sono nutrite a sufficienza e la cena non consumata veniva suddivisa tra i parenti (o in passato offerta ai poveri), in suffragio dell’anima per cui era stata preparata.

In alcune regioni, a questo rituale, si aggiunge l’usanza di non chiudere a chiave né porte, né cassapanche, né cassetti: questo al fine di dare la possibilità ai defunti di portare con se qualcosa che avevano dimenticato.
Nelle zone costiere abruzzesi c’è poi il rito di non si mangiare pesce, poiché la notte tra l’1e il 2 novembre, non era possibile andare a pesca, altrimenti le reti avrebbero pescato solo teschi di morti. Proprio per questo, uno dei pasti tipici del giorno dei morti è rappresentato dai legumi, in particolare le fave, che erano il cibo rituale dedicato ai defunti e venivano servite come piatto principale nei banchetti funebri. I Romani le consideravano sacre ai morti e ritenevano che ne contenessero le anime. Questo probabilmente perchè la pianta presenta lunghe radici e un lungo stelo cavo, fungendo da tramite tra il mondo dei morti e quello dei vivi.

Anche mangiare grano (pasta, pane) nel giorno dei morti, simbolo di vita, fertilità ma anche di morte, viene così ad assumere, valore propiziatorio per garantire continuazione alla vita e prosperità. Purtroppo oggi abbiamo perso molte antiche tradizioni. Chi ha ancora la fortuna di conoscerle e raccontarle, ne faccia tesoro. Io non posso che dire grazie ai miei nonni e ai miei genitori, per avermele fatte conoscere.