Ho trascorso la mia infanzia e gioventù nel piccolo paesino medioevale di Pacentro, in provincia dell’Aquila, uno dei borghi più belli d’Italia, un piccolo gioiello ai piedi del massiccio della Majella (il cui nome latino deriva dalla Dea Maja), dove ho avuto la possibilità di conoscere e apprezzare fin da bambino non solo il cibo, ma tutte le tradizioni contadine che ruotavano intorno ad esso. Viviamo in una società che ha dimenticato il senso di molte cose, compresa l’alimentazione. Provare a recuperare alcune usanze potrebbe essere a mio parere una grande risorsa per le nuove generazioni.
Sono cresciuto in una famiglia di estrazione contadina, quella fatta di semplicità, insegnamenti, proverbi, detti popolari e soprattutto rispetto per le tradizioni. Fin da piccolo, ho conosciuto il grande legame tra l’uomo e l’animale, nonché la sua importanza per il mondo rurale, non solo economica.
La tradizione contadina dell’uccisione del maiale a Gennaio
Il mese di Gennaio (il mese più freddo dell’anno), per molti di noi ragazzi rappresentava quel momento dell’anno nel quale in paese si aveva l’occasione di marinare la scuola per assistere a un rito folkloristico e il folklore è una cosa seria che deve esser presa sul serio, diceva Gramsci, una festa, che univa famiglie e rinforzava i legami tra le persone, ma allo stesso tempo insegnava anche ai più piccoli il rispetto e la sacralità di un animale che da sempre accompagna l’uomo e la sua sopravvivenza: l’uccisione del maiale. Un rituale che in molte regioni italiane ancora si ripete nel periodo che va tra il 13 dicembre (giorno di Santa Lucia) e fine gennaio, tanto brutale quanto affascinante nel suo significato, una pratica barbara sicuramente da condannare come gesto ma frutto di quello che la continuazione della vita, come accade nel mondo animale. Mi veniva detto che il maiale (o porco) era cresciuto con amore ed ammazzato (o meglio “scannato”) con dolore (quello del proprietario che lo ha sfamato e accompagnato in tutta la vita, nel sentirne le grida).
Mi spiaceva dell’animale morto, mi ferivano le urla, ma tutti noi bambini (ad alcuni davano persino il compito di reggere la coda) erano attratti dal rito che era una sorta di collante sociale tra le famiglie, le strade, il quartiere. Tutti uccidevano il maiale e tutti invitavano amici e parenti. Era la fine di una vita e la nascita di una nuova: era passato un altro anno.
Il maiale è cresciuto con amore ed ammazzato con dolore
Nella civiltà contadina, questo rituale coincideva spesso con la festa in onore di Sant’Antonio Abate, che per la cristianità è il protettore degli animali (la leggenda narra che S. Antonio Abate un giorno salvò un porcellino da bestie feroci; da quel momento il porcellino lo seguì dappertutto come fosse un cane) e si festeggia il 17 gennaio di ogni anno, data della morte del Santo, nel 356 d.C., rappresentando il passaggio dal Capodanno al Carnevale.
Del maiale non si butta niente
Si dice da sempre che del maiale non si butta via niente. Era quello un mondo in cui non si conoscevano gli sprechi e nel quale la cucina di recupero non era una moda come oggi ma una necessità. Si recuperavano persino i peli del dorso per farne dei pennelli, con le ossa e il midollo si faceva il brodo, mentre l’intestino veniva pulito e fatto asciugare per diventare il contenitore di tipici salumi. Persino le frattaglie erano cucinate e condivise con i partecipanti al banchetto, unendole ad aglio rosso si Sulmona, olio extravergine d’oliva, sale e con qualche foglia di alloro. Con le parti meno nobili (cotenne, orecchie, lingua e muso) veniva creata la “coppa di testa”, un salume che tradizionalmente andava consumato entro Pasqua (solo allora erano pronte salsicce e salami che erano stagionate al freddo), che si otteneva facendo bollire tutto questo in un paiolo d’acciaio o di rame per diverse ore o comunque fino a quando la pelle, le parti carnose, tendinee e le cartilagini più elastiche risultavano facilmente asportabili dall’osso con una forchetta. Altra pratica (ora vietata) era quella di raccogliere il sangue per preparare il famoso “sanguinaccio”, grazie all’aggiunta di cacao, canditi e cannella.
Nella civiltà contadina si facevano pranzi o cena a base di solo maiale, detti appunto “maialate” e si consumava la carne di maiale fino al giorno precedente alle Ceneri, ovvero l’ultimo giorno del “Carnevale”, che in latino significa appunto “carnem levare”. Per la civiltà contadina infatti iniziava in quel giorno la tradizione pagano-cristiana, in parte legata al cammino di Gesù Cristo nel deserto, in parte effettuata in onore alla dea Cerere, dove per 40 giorni, ci si purificava l’anima con digiuni e si pregava affinché il bestiame proliferasse e i raccolti riempissero i magazzini.
Il legame tra uomo e maiale ha origini molto antiche. Il capostipite dei suini domestici è il cinghiale selvatico (Sus scropha), che nel corso dei secoli ha subito numerosi incroci e dato vita a numerose razze, essendo uno degli animali più malleabili in termini genetici. Notizie certe ci dicono che la domesticazione sia avvenuta già nel 5000 a.C., rappresentando un binomio odio-amore con l’umanità, soprattutto da alcune religioni. La parola “porco” viene infatti oggi utilizzata in modo dispregiativo per indicare persone disprezzabili oppure per imprecare (“porca miseria”). Avete mai sentito il detto “mangiare come un porco”? Oppure avete mai utilizzato la parola “porco” come sinonimo di sporcizia?
A proposito, sapete che i musulmani non mangiano maiale e per quale motivo? Nel Corano questo animale è definito impuro, immondo e inadatto al consumo non solo dai musulmani ma anche dagli ebrei e da alcune denominazioni cristiane. Alcuni paesi come l’Iran, il Qatar e l’Arabia Saudita vietano la produzione, le importazioni e la vendita di carne suina. In realtà il motivo di questo divieto è legato anche ragioni sanitarie: la carne di suino poco cotta è vettore di parassiti (trichinella e tenia). In molti paesi Africani e Orientali, le alte temperature ambientali, comportavano un deterioramento delle carni e quindi delle infezioni (in passato non esisteva il frigorifero o il congelatore). Chi alleva maiali, o chi l’ha visto fare in passato, sa bene che essi si cibano di tutto. Per questo sono spesso visti come sporchi e sessualmente promiscui. Secondo la loro credenza (ma un po’ anche nella nostra in riferimento a insetti o serpenti) mangiare un animale significa in qualche modo assorbirne i poteri, le caratteristiche: ingerire la carne di maiale renderebbe impuro, sporco”, secondo i musulmani.
Il divieto di carne di maiale per l’islam nasce da una esigenza sanitaria
Vi sono molte differenze tra l’allevamento contadino del maiale e quello industriale di oggi. In passato, fino agli anni 50-60, l’animale mangiava di tutto perché veniva allevato nell’ambito familiare ed era alimentato con gli avanzi della cucina. Esistevano diverse razze, tra le quali alcune famose ancora oggi ma relegate quasi a un’elite, come la “cinta senese”, la ”romagnola” o il maiale nero d’Abruzzo, la cui produzione è oggi portata avanti da piccoli allevatori anche nella Valle Peligna, come l’Azienda Agricola “Nero peligno”. Sono ancora poche le razze allevate allo stato brado che si nutrono di ghiande e vantano un profilo lipidico eccellente, con un maggiore apporto di acidi grassi polinsaturi.
Cosa dice la scienza della carne di maiale
Rispetto al passato comunque, grazie alla scienza e agli studi di veterinaria, il profilo lipidico e la qualità delle carni suine è notevolmente migliorato rispetto ai primi allevamenti intensivi. Il maiale (il cui termine deriva dalla Dea Maia, cui era sacrificato per ottenere benefici e protezione) è diventato vegetariano come altri animali d’allevamento, mangiando prettamente mangimi con formulazioni appositamente studiate a base di soia, mais e crusca, perdendo però a detta di molti, il sapore eccellente che contraddistingueva queste carni in passato. Questo soprattutto per venire incontro alle esigenze nutrizionali del consumatore, con un aumento delle masse muscolari e una riduzione del compartimento grasso. Oggi il contenuto di grasso della carne di maiale giovane è paragonabile a quella del bovino, sia nell’apporto calorico che in quello lipidico e amminoacidico. La popolazione mondiale oggi è arrivata a circa 7 miliardi e tra poco più di 30 anni toccherà i 9 miliardi. Nonostante le indicazioni a ridurre il consumo di carne, nel mondo se ne consuma davvero troppa e per soddisfare tali richieste gli allevamenti intensivi sembrano quasi essere indispensabili. Quella di maiale, secondo la Fao è la più consumata al mondo con il 37% pari a 114 milioni di tonnellate, cui fa seguito il pollo (35%) e il manzo (22%). I Paesi che consumano in generale più carne sono Cina, Usa, Brasile, Germania e Francia mentre l’Italia ha il più basso consumo d’Europa. Nei paesi sviluppati la domanda di carne non cresce da 50 anni e il consumo è rimasto più o meno stabile. Nel frattempo la domanda nel resto del mondo è aumentata. In Cina, Paese da molti indicato come modello vegetariano, il consumo di carne si è quasi decuplicato dal 1960 ad oggi ed è arrivato a un livello comparabile con quello dei paesi occidentali. Per inciso, il Paese con più vegetariani al mondo è l’India, che paradossalmente è il principale esportatore mondiale di carne, bovina.
Tra le razze che più si sono adattate a questo tipo di allevamento moderno abbiamo sicuramente la cosiddetta Large White, importata per la prima volta dai paesi anglosassoni in emilia romagna alla fine dell’ottocento, potendo raggiungere un peso medio di 300-350 kg (180 kg in un solo anno), con punte di 450 kg in alcuni maschi. Si tratta di una razza che si adatta a tutti i climi e a tutte le condizioni, con un elevato grado di fertilità e prolificità (circa 10 figli per parto) che oggi rappresenta la principale razza alla base di eccellenze italiane come il Prosciutto di Parma e San Daniele.
Detto questo, siete ancora sicuri che la parola “porco” sia dispregiativa?